Bach in Vicenza

2008-01-10 / Il Giornale di Vicenza / Cesare Galla

LA MONUMENTALE “MAGNA CHARTA” DELLA MUSICA OCCIDENTALE PROPOSTA L’ALTRA SERA E OGGI GRAZIE A SOCIETÀ DEL QUARTETTO – AMICI DELLA MUSICA

Hewitt e Bach
La tastiera è una passione

Oggi la questione non è più se sia ammesso eseguire il Clavicembalo ben temperato di Sebastian Bach al pianoforte. Superati gli anni del fondamentalismo filologico (spesso mal posto), i seguaci del “profeta” Glenn Gould – l’uomo che sconvolse il mondo della musica con i suoi Bach pianistici fin dagli anni ’50 – sono andati e si sono moltiplicati, diffondendo la buona novella di una prassi esecutiva più “umana”, meno arida e astratta.
Oggi la questione è piuttosto come questa “Magna Charta” della musica dell’Occidente nell’era moderna debba “vivere” nei nostri tempi. Se debba rimanere confinata a una pur imponente discografia – secondo il verbo gouldiano – oppure se possa diffondersi nel repertorio “ordinario”, magari patendo i problemi del suo smembramento in piccoli pezzi da concerto, o da fuori programma. Perché in realtà si può ben dire ancora adesso che il Clavicembalo ben temperato è lungi dall’appartenere al repertorio “ordinario”. È il singolare destino di questa “legge fondamentale” della musica tonale, compagna inseparabile di studio e di riflessione di tutti i grandi, a prescindere dai gusti, dagli stili, dai movimenti estetici: da Mozart a Beethoven, da Schumann a Chopin, da Rossini (proprio lui!) a Brahms. Questa musica sublime, nata ai primi del Settecento “per la pratica e il diletto dei giovani musicisti desiderosi di istruirsi” e da allora fedele compagna di tutti quelli che hanno studiato e studiano il pianoforte (la tastiera del titolo originale: “Clavier” ben temperato) rimane indispensabile ma in fondo aliena dai programmi dei concerti, diffusa nella maggior parte dei casi in dosi omeopatiche.
C’è chi, come Angela Hewitt, preferisce le terapie d’urto, propugnando cioè la “full immersion” delle esecuzioni integrali. Non sappremmo dire quanto questa soluzione favorisca una diffusione maggiore di questa musica dal vivo, perché concerti come quelli della pianista canadese assumono inevitabilmente caratteristiche molto particolari, quasi rituali. Ma certo ascoltare tutto il primo Libro del Clavicembalo ben temperato nell’arco di una sola serata, oltre cento minuti per ventiquattro Preludi e altrettante Fughe in tutte le tonalità maggiori e minori, è un’esperienza decisamente singolare. Che diventa unica se quarantott’ore dopo la stessa pianista si avventura anche nell’integrale del secondo Libro del Clavicembalo.
La Hewitt sta portando questo programma in giro per il mondo con una dedizione che non sembrerà irrispettoso definire religiosa, e Vicenza può vantarsi – grazie a Società del Quartetto e Amici della Musica – di essere una delle sedi di questa impresa. L’altra sera, al Ridotto del nuovo Comunale – che non poteva avere in verità miglior battesimo musicale – è stata la volta del primo Libro, proposto interamente a memoria; questa sera toccherà al secondo.
L’esecuzione integrale è anomala nel suo carattere museale o, come si diceva, rituale, ma consente di entrare nel formidabile gesto creativo di Bach in maniera totalizzante e di scoprire come l’esplorazione dell’universo armonico da parte del musicista offra prospettive continuamente diverse a dispetto della rigidità della struttura. La Hewitt si sforza di sostenere tutto il lunghissimo arco di questa invenzione e ci riesce praticamente sempre; quando la tensione cala, e avviene molto di rado, lo si deve al peso specifico densissimo di questa musica e alle richieste fisiche e anche psicologiche che essa fa all’interprete. La quale del resto si predispone alla “maratona” con un rigore metodico che ha anch’esso il sapore delle studiate simmetrie bachiane: a fianco dello Steinway, su una seggiolina, due bicchieri d’acqua sono il suo unico supporto. Beve il primo dopo quattro Preludi e Fughe, il secondo dopo otto. La pausa, dopo il dodicesimo, serve a ricostituire la riserva. Si continua con lo stesso preciso “ritmo” nella seconda parte; al ventitreesimo Preludio l’acqua è quindi finita, ma la Hewitt ne vorrebbe ancora un po’: sorbisce le ultime gocce da entrambi i bicchieri, sembra quasi alla ricerca di ogni stilla di energia per affrontare le ultime due coppie dei Preludi e di Fughe, e specialmente lo sbalorditivo, monumentale contrappunto conclusivo.
La sua esecuzione è animata da una forza interiore ammirevole, da un pensiero lucidissimo, dall’evidenza di una scelta stilistica meditata e portata fino in fondo. Il pianoforte è dominatore, nel senso che nulla di quello che appartiene alle sue caratteristiche viene lasciato da parte. L’intensità espressiva è affidata a una minuziosa gamma di dinamiche non meno che all’intima partecipazione agli “affetti” di queste pagine. Lo stile sorveglia il tocco, mai esasperato, il fraseggio esprime la libertà dell’interprete, anche nel continuo “respirare” dei tempi all’interno di ogni singola pagina. Il suono è nitido, mai tagliente, mai trascinante; sembra quasi che la Hewitt abbia in mente le ovattate sonorità del clavicordo (lo strumento domestico preferito da Bach) e che ne trasporti la moderata duttilità nell’universo tanto più ampio del pianoforte.
Dell’immenso affresco così coraggiosamente ricostruito da Angela Hewitt rimangono nella memoria alcuni particolari rivelatori del suo gusto e della sua musicalità. Riguardano alcuni Preludi e Fughe in modo minore (quello in Do diesis, in Re diesis, in Si bemolle e in Si), tutti proposti con una forza patetica che non di rado sconfina nel drammatico, addirittura nel tragico. Forma, studio e pensiero in questa interpretazione si fondono con palpitante evidenza e con umanissima partecipazione. È Bach nostro contemporaneo nell’universalità della musica.
Il Ridotto segnava il tutto esaurito. Applausi vivissimi e ripetute chiamate.